
La forza di una moneta sta anche nel fatto che deve essere difficile da contraffare. Almeno abbastanza difficile da richiedere un costo superiore al valore della moneta stessa. Nel campo della moneta digitale non c’è differenza, il Bitcoin deve essere difficile da contraffare. Che significa che nessuno può essere in grado di spendere lo stesso coin (o frazione) più di una volta. Se va in crisi questo concetto va in crisi il circuito Bitcoin nella sua interezza. Bitcoin basa questo principio sul concetto di proof-of-work, in pratica nessuno potrà alterare il registro distribuito delle transazioni perché questo richiederebbe troppo lavoro computazionale, bisognerebbe replicare daccapo ciò che tutta la rete ha fatto finora, transazione per transazione, dove ogni blocco di transazioni è stato validato da una proof-of-work. Possiamo immaginare la proof-of-work come la soluzione di un problema di calcolo concettualmente semplice ma molto oneroso, per un umano sarebbe tipo trovare un ago in un pagliaio. Se uno è fortunato lo può trovare subito, ma mediamente occorrerà tantissimo lavoro. Il calcolo consiste nel trovare un numero che applicato ad una particolare funzione matematica non invertibile produca un risultato (in gergo chiamato hash) che inizi con un certa sequenza di cifre (ad esempio 10 volte zero). Chi ha una maggior capacità di hashing, misurata appunto in hash/sec, potrà “probabilmente” minare più blocchi di transazioni e ricevere sempre più incentivi. Questo principio del proof-of-work sembra aver funzionato bene finora in BTC ma ha uno svantaggio: richiede energia. E la cosa grave è che Bitcoin è stato progettato per porre problemi sempre più onerosi (pagliai sempre più grandi o aghi sempre più piccoli) man mano che il tempo passa riducendo anche nel tempo l’incentivo ai nodi che risolvono la proof-of-work (inizialmente era 50BTC, oggi è già dimezzato a 25). Questi due fattori pongono la questione se sarà ancora conveniente per i nodi lavorare alla proof-of-work anche in futuro. Uno scenario catastrofico è quello del monopolio malevolo, ossìa un “qualcuno” che intende prendere il monopolio del circuito digitale con lo scopo di annientarlo. Quando molti nodi desistono dalla ricerca del proof-of-work diventa più probabile che una singola entità possa disporre del 51% della capacità totale di calcolo della rete in termini di hash/sec e quindi riuscire a monopolizzare la scrittura sulle transazioni. Questo gli permetterebbe anche di falsificare la moneta effettuando double spending (cioè spendendo due volte lo stesso BTC) rendendo la valuta inutile come mezzo di scambio.
Per questo motivo è stata ideata una nuova cripto moneta, alternativa al Bitcoin, chiamata PPCoin che sfrutta insieme al proof-of-work un altro concetto: il proof-of-stake. La differenza tra proof-of-work e proof-of-stake può essere riassunta così: il proof-of-work ottenibile da un nodo è proporzionale alla sua capacità di calcolo relativa, cioè se un nodo A è capace del 20% della capacità totale della rete in termini di hash/sec allora mediamente risolverà il 20% del proof-of-work e otterrà il 20% degli incentivi. Differentemente, nel sistema basato su proof-of-stake tale percentuale è limitata alla percentuale della quantità di moneta posseduta dal nodo. Cioè chi possiede il 10% della moneta totale al massimo potrà “minare” il 10% dei blocchi di transazioni. Questo appare a prima vista un approccio plutocratico (chi è ricco diventa più ricco), ma in realtà non è così, la vera risorsa a disposizione di chi è ricco non sono i coin digitali, ma l’energia reale e quindi la potenza di calcolo. Nel caso di proof-of-work, il monopolista potrebbe investire milioni di dollari per acquisire la capacità di calcolo necessarie, mettere in crisi la credibilità della moneta e poi rivendere l’hardware con una perdita limitata. Un fattore che rende l’attacco monopolistico ad un sistema basato su proof-of-stake inutile è che l’acquisizione del monopolio passa dall’acquisizione di una grande percentuale della moneta digitale attraverso lo scambio dollari/coin digitali (o altri beni in cambio di coin digitali). Questo porterebbe il monopolista malevolo nella condizione di rendere nullo il valore di scambio della moneta digitale e quindi distruggere il circuito con un grande sforzo restando però con un pugno di mosche in mano essendo contemporaneamente il maggior possessore di coin digitali.
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